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      Non farò mai la fine di mia madre

      Non farò mai la fine di mia madre

      Sono stata un’adolescente mediamente ribelle. E nel mio essere mediamente ribelle ho pronunciato almeno una volta (ma sono sicura che sia successo più spesso) la fatidica frase – non farò mai la fine di mia madre!

      Era il mio modo per affermarmi, per dire che non avrei mai fatto le sue scelte, che non volevo essere come lei (che in quel momento mi sembrava il modello meno interessante da seguire e più distante da quello che volevo diventare). Era il mio modo per dire: sarò migliore di lei!

      Negli ultimi tempi però mi sono resa conto di essere molto più simile a mia madre di quanto pensassi. Non lo considero un fallimento, anzi. La mia adolescenza è passata ormai, e assomigliare per certi versi a mia madre lo considero normale e inevitabile. Ma c’è una cosa in particolare che ultimamente mi ha fatto riflettere su come sono diventata più simile a lei di quanto desiderassi, e su come questo influenza il mio comportamento e le mie scelte di vita.

      Intanto premetto che mia madre è stata un’insegnante della scuola elementare. Un’insegnante che ha amato tanto il suo lavoro e che si è impegnata moltissimo per i “suoi bambini”. E io ero sicura che mai nella vita avrei seguito le sue orme. Capitava che aprissi il frigo e trovassi polmoni di coniglio che le servivano per mostrare in classe come funzionava l’apparato respiratorio. Oppure che la vedessi correggere i compiti fino a tarda sera e che sbirciando mi accorgessi di certe castronerie che mi facevano esclamare esasperata: ma come fai a non prenderli a testate?! (Sì, se hai fatto le scuole elementari a Lurate Caccivio e hai avuto mia madre come maestra potrei aver visto i tuoi compiti e aver pensato che eri un imbecille). Tutte queste cose mi facevano pensare che fare l’insegnante non era cosa per me. Ci voleva una pazienza e una passione che non pensavo di poter nutrire per le altre persone. Invece, guarda un po’, buona parte del mio lavoro oggi consiste proprio nell’insegnare e nell’avere a che fare con una classe di persone che vogliono imparare quello che so. E questa cosa mi entusiasma e mi appassiona tantissimo.

      Ma la cosa per cui mi sono resa conto che ho proprio fatto la fine di mia madre è che ho preso il suo vizio di paragonarmi costantemente agli altri. In particolare lei era solita confrontare di continuo le mie performance con quelle di chi faceva meglio di me. Se ad esempio a scuola prendevo un voto mediocre, mi faceva notare che c’era chi aveva fatto meglio al compito in classe. Se una mia amica era impegnata in qualche attività extrascolastica che io non avevo preso in considerazione, mia madre mi diceva che potevo fare come lei.

      E io per reazione ho imparato a paragonarmi, di contro, con quelli che facevano peggio di me. Perciò rispondevo che c’era anche chi aveva preso voti più scarsi. O che avevo degli amici che non facevano assolutamente nulla dopo la scuola.

      Era una sorta di copione che si ripeteva sempre uguale. Se lei diceva che tizio aveva fatto meglio di me, io rispondevo che però caio aveva fatto peggio. Non lo sopportavo. Anche se sapevo che era il suo modo di spronarmi a essere una persona migliore, io andavo fuori dai gangheri. Perciò ho passato la mia adolescenza a “puntare verso il basso” e cioè a giustificare i miei risultati dicendo che c’era chi faceva peggio.

      Anche in questo caso, al grido di – non farò mai la fine di mia madre! – mi sono convinta che non mi sarei mai paragonata a chi era meglio di me solo per il gusto di farlo. E soprattutto che non mi sarei comportata così con un’eventuale figlia o con chiunque altro. Oggi però devo ammettere che ho preso il suo stramaledetto vizio, e che continuo a confrontarmi con chi fa meglio di me.

      Questa cosa ha un lato positivo e uno negativo.

      Il lato negativo è che tendo a non accontentarmi mai, e a vedere i risultati che ottengo come non sufficienti. O meglio, penso che si possa sempre fare di più. Sia che si tratti del mio lavoro che della mia vita in generale. Perciò paragonarmi a chi è meglio di me (o considero tale) mi provoca da una parte una certa ansia da prestazione, e dall’altra non mi fa stare mai ferma un momento, perché voglio di più, pretendo di più, cerco di avere di più. Succede ad esempio con i “numeri” del mio business: non riesco a guardarli (il più delle volte) con uno sguardo obiettivo, ma continuo a dirmi che voglio raggiungere i risultati che hanno raggiunto quelli che sono meglio di me.

      La cosa positiva del paragonarmi a persone che ritengo più brave di me è identica a quella negativa. E cioè, non mi accontento mai. E questo mi sprona a migliorarmi. Cosa buona e giusta fino a che non diventa una “malattia”.

      Nel constatare che, in ultima analisi, ho proprio fatto la fine di mia madre, mi sono resa conto che non avevo poi tutti i torti, da adolescente… Anche guardare chi è “peggiore” di me può avere i suoi risvolti positivi. In particolare perché in questo modo riesco a rimanere più ancorata alla realtà. Mi spiego meglio. Ok puntare a crescere e migliorarsi. E giammai limitarsi o puntare in basso. Ne sono convinta. Ma la vera chiave di volta è imparare a trovare un equilibrio e osservare sia chi fa meglio, sia chi fa peggio, senza ansia. Se continuo a paragonarmi solo a chi è più bravo, mi capita di perdere di vista il vero obiettivo. Che non è superare gli altri (non è mica una gara), ma raggiungere i traguardi che io mi sono fissata, indipendentemente da chi mi sta intorno o ammiro.

      Ogni tanto dare un occhio a chi fa peggio di me, mi mostra che in realtà di strada ne ho fatta tantissima. Che i risultati o i “numeri” che io considero insignificanti non sono affatto male. Che posso sì, continuare a crescere, ma che posso anche darmi una pacca sulla spalla da sola per quello che ho saputo costruire fin qui.

      Insomma, alla fine non credo che la me adolescente avesse tutte le ragioni o che mia madre avesse tutti i torti. Probabilmente abbiamo “sbagliato” entrambe. Ma oggi riscoprirmi un po’ uguale a lei mi fa sperare di aver trovato una sorta di equilibrio.

       

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