
NEW YORK CITY DISPATCH #3 – Leaving New York never easy
Prendo in prestito la canzone dei REM – Leaving New York never easy – per dire una cosa che sapevo già. Andare via da New York non sarà facile.
Quando ho detto per la prima volta “mi trasferisco per un po’ a New York” le reazioni sono tante e diverse. Principalmente di grande gioia, più qualche – vengo anch’io! – oppure – che invidia, è il mio sogno. Un’amica mi ha scritto: “che bello però non pensi a come sarà brutto, poi, dover tornare?” E io le ho risposto che non ero ancora neanche partita e non mi andava di fasciarmi già la testa pensando a come mi sarei sentita tornando.
Adesso quel momento è arrivato. E la penso esattamente come sei settimane fa. Non mi interessa pensare a come mi sentirò sabato, quando sarò in aeroporto pronta a imbarcarmi per tornare in Italia. So che non sarà facile. So che mi dispiacerà un sacco. Ma stare qui per un po’ mi ha insegnato una serie di cose che porto in valigia con me (oltre a qualche acquisto per cui mi sa che dovrò pagare per il sovrappeso del bagaglio!). Quindi sì, sabato sarò dispiaciuta, ma non così tanto da rovinarmi tutti i bei ricordi e le esperienze favolose che ho potuto fare stando a New York da “newyorkese in prova” invece che da turista. E poi, diciamocelo, mica torno all’inferno. La mia vita mi piace, anche se al momento è a Lurate Caccivio e non a New York. E anche se parto, non significa che io non possa tornare… Fatto una volta, si rifà anche un’altra no?
Perciò ecco il mio ultimo dispatch dalla Grande Mela (per ora, in futuro chissà…). Un po’ di riflessioni sparse, che lasciano più domande che risposte. Ma va bene così.
LA PASSIONE RESTA PASSIONE, ANCHE IN UN’ALTRA LINGUA
COSA è SUCCESSO
In queste sei settimane ho cercato di capire se aveva senso per me pensare di trasferirmi e lavorare da qui. Se non per sempre, almeno per un periodo. Tempo fa una collega (e amica) mi ha chiesto perché non traducevo il mio sito in inglese. E io – come accade spesso – ho accampato una serie di scuse. Scuse in cui credevo, ma che erano più cose che mi raccontavo che problemi reali. Prima di partire per New York quella domanda ha ricominciato a tormentarmi, e qui mi sono convinta che non sarebbe una cattiva idea. Quindi tradurrò il mio sito in inglese? Non lo so ancora, ma sicuramente stare qui mi ha permesso di abbattere un po’ di quelle preoccupazioni che avevo trasformato in banali scuse di tipo pratico…
Inoltre qui ho potuto fare la mia prima esperienza di coaching in inglese. Che pare banale, ma non lo è. Perché anche se capisco l’inglese e mi faccio capire quando lo parlo, fare coaching richiede una profondità di comprensione che ancora devo sviluppare. La mia sessione di coaching è capitata per puro caso, e sono davvero felice di aver avuto questa opportunità. Potere dei social media, ho scoperto su Instagram di essere a New York nello stesso momento in cui lo era una delle ragazze che ho conosciuto lo scorso anno al retreat di Marrakech. Vi ricordate quell’esperienza assurda al di fuori della mia comfort zone, che mi ha portata a stare per una settimana in Marocco con 23 filippine?
Ecco, qui a New York mi sono rivista con una di loro e abbiamo fatto una lunga chiacchierata sui suoi attuali progetti (si è licenziata a febbraio e ora sta aprendo un suo business) e sui miei. Questo caffè si è trasformato abbastanza velocemente in una sorta di incontro zero, in cui lei ha condiviso con me i suoi obiettivi e mi ha raccontato le sue aspettative. E io le ho detto cosa faccio, come lo faccio, e le ho dato qualche input per avviare la sua nuova attività. Da lì alla richiesta di un “vero” incontro di coaching il passo è stato breve. E io, che da quando sono qui dico di sì praticamente a qualsiasi cosa mi propongano, ho preso l’agenda e ho fissato una sessione di business coaching per la settimana successiva.
COSA HO IMPARATO
Sicuramente devo approfondire la conoscenza della lingua, perché anche se capisco quello che mi si dice, voglio riuscire a comprendere tutte le sfumature. Il mio tipo di coaching è molto “tecnico” ma ho comunque bisogno di andare più in profondità quando lavoro con qualcuno, ed è anche necessario che io acquisisca un vocabolario un po’ più ampio.
Ma questo è qualcosa che posso imparare. Quello che non si può imparare è la passione per quello che si fa. E credo di aver dimostrato ampiamente di averne da vendere. E questo per me è il più grande successo che mi porto a casa. Non so se era perché da quattro settimane non parlavo praticamente con nessuno, ma evidentemente ho tirato fuori il meglio di me in quel fortuito “incontro zero”; e poi nella sessione di coaching ufficiale ho capito che molte delle cose che io do per scontate non lo sono affatto. Questa cosa ha abbattuto subito la mia paura di non avere “niente di interessante da dire”. (Ognuno ha il suo critico interiore che gli dice cose assurde per farlo desistere dal fare ciò che desidera. Il mio di solito mi dice questa cosa qua…).
Sono anche stata a diverse conferenze di coach newyorkesi per vedere come lavorano e qual è il loro stile. E anche se non mi piace il loro modo di fare abbastanza “aggressivo”, credo che da loro ci sia comunque qualcosa da imparare, soprattutto per quanto riguarda la capacità di auto-promuoversi. Torno a casa con un quaderno pieno di appunti e di idee che voglio sviluppare. Così tante che dovrei clonarmi per poterle mettere tutte in pratica, ma con un po’ di calma credo che qualcosa riuscirò a fare.

Non so se lavorerò mai qui, ma fare la pendolare con questo panorama mi mancherà.
USCIRE DALLA COMFORT ZONE NON è solo UNA SFIDA
COSA è SUCCESSO
Essere qui mi ha messo sicuramente addosso la fregola di fare più esperienze possibili, perché continuavo a ripetermi – e quando mi ricapita? Ma ho capito una cosa: che mi ricapiterà sicuramente. E soprattutto mi ricapiterà anche se non sono a New York. La scorsa settimana sono stata a un incontro con Arianna Huffington. Questa settimana a una tavola rotonda con Grace Bonney di Design Sponge. E ho pensato a quanto è strano incontrare “nella vita reale” queste persone, che ti sembra di conoscere da sempre perché hai accesso a una parte della loro vita attraverso i social media. Mentre ascoltavo Grace Bonney presentare la sua nuova rivista, Good Company, ho proprio pensato che io so un sacco di cose di lei e lei non sa neanche che esisto. Lo trovo strano e affascinante allo stesso tempo. Sono anche stata a un incontro di networking (sempre per andare fuori il più possibile dalla mia comfort zone). Ma sono ancora viva, e questa cosa è già un grande successo. E poi giovedì andrò a un altro evento sull’empowerment femminile (ormai in pratica appena un invito arriva nella mia inbox scatta in automatico il RSVP).
COSA HO IMPARATO
Credo che tutta questa “vita mondana” che mi sono concessa a New York mi abbia insegnato diverse cose.
1. che non bisogna essere per forza a New York per fare certe cose. Non so se la mia vita cambierà davvero dopo questa esperienza. Ma so che alcuni effetti positivi delle cose che ho visto e degli incontri che ho fatto me li voglio riportare indietro. Prima di tutto voglio superare un po’ la mia pigrizia. Faccio un milione di cose, chi mi conosce lo sa, ma sono un po’ pigra quando si tratta di “occasioni sociali”. Qui – anche se praticamente non ho parlato con nessuno per sei settimane – ho cercato di andare a ogni presentazione, a ogni evento o conferenza che mi capitava di intercettare. Ho ascoltato cose noiose e cose interessanti. Ho visto un sacco di persone entusiaste di quello che fanno. E mi sono resa conto che paradossalmente sono io, il più delle volte, a tagliarmi fuori dalle “cose interessanti”. Per pigrizia, appunto. O forse per un po’ di snobismo, non lo so. Fatto sta che vorrei portarmi a casa un po’ di questa voglia di “partecipare” ed essere presente.
2. che i social media sono prima di tutto una grande opportunità. Non è che non lo pensassi già, ma mi sono resa conto che passo più tempo a discutere degli aspetti negativi “dell’essere social” che di quelli positivi. Nel mio lavoro mi trovo spesso a “convincere” le persone che possono trovare un loro modo di essere online, che possono essere autentiche senza spiattellare tutti i dettagli della loro vita privata su Facebook, che essere sui social è in qualche modo il “prezzo” da pagare per poter far crescere il proprio business. Qui invece mi sono resa conto che questo è un punto di vista sbagliato. Che se continuiamo a partire dal negativo per trasformarlo in positivo stiamo fallendo in partenza. Stiamo disperdendo le nostre energie convogliandole nella direzione sbagliata. Non voglio passare per la Pollyanna della situazione e fare finta che non ci siano problemi o complicazioni nell’uso che si fa dei social. Però ho visto con i miei occhi persone che sfruttano questi potenti mezzi in modo corretto, consapevole, positivo. E che non avrebbero fatto quello che hanno fatto, non avrebbero portato il loro contributo nel mondo (piccolo o grande), se non ci fossero stati i social media. Quindi mi sono chiesta cosa cavolo potrebbe succedere se tutti iniziassimo a concentrarci di più sulle cose importanti – e cioè sul messaggio che vogliamo trasmettere, sulle cose che possiamo condividere, sul contributo che possiamo dare – invece che farci menate sul “lato oscuro” dei social media. Questa non è una battaglia a favore dell’andare online. E’ una battaglia a favore dell’andare da qualche parte – online o offline – a diffondere il proprio messaggio. Non è che ci nascondiamo dietro la negatività del web solo perché non abbiamo ancora ben capito quello che abbiamo da dire?

Alla presentazione di Good Company ho conosciuto donne straordinarie di cui non avevo mai sentito parlare, ma che avevano un sacco di cose interessanti da dire.
3. che il networking non ti uccide (se preso a piccole dosi). Quando ero una “startupper” ho partecipato a un milione di eventi di networking. Provando sempre un terribile senso di disagio. Non mi è mai piaciuto fare networking, avvicinarmi a un gruppetto di persone con un bicchiere in mano e dire – ciao sono Micaela, tu cosa fai? Eppure qui mi sono iscritta a un evento di networking volontariamente (e ho pure pagato per andarci) e mi sono avvicinata a persone che non avevo mai visto prima per parlare di cosa fanno. Ho scoperto che c’è un modo diverso, interessante e poco spaventoso di parlare con gli sconosciuti. E quindi credo che ci sia speranza per tutti. Il problema, anche in questo caso, è buttarsi. Fare il primo passo. Non solo metaforicamente. Ma proprio avvicinarsi alle persone, dire una parola, fare un sorriso. Spero di portare a casa con me un po’ del coraggio che ho dimostrato qui a New York.
In conclusione, ho imparato che uscire dalla comfort zone non è soltanto gettare il guanto di sfida e vedere se ce la fai a superare i tuoi limiti. E’ principalmente crescere, avere una vita più piena e più felice. Al prezzo di un po’ di disagio iniziale, forse. Ma con un sacco di vantaggi poi.