
Come essere un (buon) freelance
Questo post ha avuto una gestazione piuttosto lunga, anzi lunghissima. Del resto io sono fatta così: penso alle cose, me ne sto in silenzio e osservo. Magari anche per tanto tempo. Poi a un certo punto, quando ho “meditato” abbastanza su una faccenda e sono sicura che quello che ho da condividere non dico sia intelligente, ma almeno aggiunga qualcosa di utile alla discussione, allora parlo. In questo caso, scrivo.
I mesi a cavallo tra il 2018 e il 2019 sono stati per me “tematici”, e cioè sono stati caratterizzati da una serie di riflessioni sull’identità e il branding. Vuoi perché ho tenuto alcuni workshop sul tema, vuoi perché mi sono interrogata sempre più spesso sui valori che voglio esprimere come professionista. Sono stata freelance per cinque anni, poi per 10 ho fondato e fatto crescere due startup, poi sono tornata a essere una libera professionista. Per tutto questo tempo il mio modo di fare business si è basato su una serie di valori che probabilmente davo per scontati, ma che con gli anni ho focalizzato sempre di più. Uno dei più importanti per me è il senso di giustizia: “fare quello che è giusto”. Non ho mai scritto in maniera formale il mio Manifesto, ma in questi mesi sono successe cose e si sono aperte discussioni che ho osservato da “lontano” e che mi hanno spinta a mettere una sorta di punto fermo, e soprattutto a dichiararlo apertamente. Perciò nel post di oggi voglio raccontarti come voglio lavorare e che tipo di freelance voglio essere. Anche per dirti che cosa puoi aspettarti da me.
Un po’ manifesto, un po’ Haka (la danza tipica dei Maori)
Se per essere un freelance è sufficiente aprire la Partita Iva, per essere un buon freelance occorre definire e avere ben chiari i principi etici che ci guidano quotidianamente. E naturalmente seguirli. Io so come voglio essere. E so anche come devono essere le persone con cui voglio lavorare; perciò oltre a definire me come professionista, questi principi definiscono anche cosa cerco negli altri. Ne tralascio volutamente alcuni che do per scontati, come l’accuratezza nella realizzazione dei progetti, la preparazione, l’onestà, il rispetto delle deadline ecc. Ma ecco i principi etici principali che ispirano il mio lavoro e a cui cerco di attenermi ogni giorno. Sperando che siano uno spunto di riflessione anche per altri.
1. Responsabilità
I miei “numeri” sono lì da vedere. Ho scelto una strategia comunicativa adatta a come sono io, consapevole che questo comporta una crescita lenta, ma costante. Il punto è che non importa quanti follower hai: quello che dici online (e offline) può influenzare pesantemente qualcuno. E prendersene la responsabilità è un dovere. Quando postiamo, ci rendiamo conto dell’impatto che possiamo avere? Se abbiamo aperto un canale di comunicazione, e qualcuno sta all’altro “capo del filo” ad ascoltare quello che diciamo, abbiamo il dovere morale di pensare molto bene prima di postare; e di pubblicare contenuti di qualità. Sui social chiaramente tendiamo a mostrare solo una parte della nostra vita e del nostro business: generalmente quella più bella. Ma non possiamo negare del tutto anche le difficoltà che incontriamo. Fare finta che sia tutto facile, o che basti un piccolo sforzo per ottenere grandi risultati, per me è un cattivo servizio che facciamo a chi ci segue. Gli sforzi da fare per crescere come professionisti non sono piccoli, ma la motivazione fa la differenza, e anche la montagna più alta si può scalare se ci si prepara, ci si allena e si esce un po’ dalla propria comfort zone. Alla fine il risultato vale lo sforzo.
2. Responsabilità II (la vendetta)
Essere responsabile per me significa anche impegnarmi sempre al 100% in quello che faccio. Sia quando si tratta di un mio progetto, sia quando vengo coinvolta in quello degli altri. “Risparmiarmi” per me non è un’opzione. Penso che quando ci viene offerta una possibilità – e una collaborazione è sempre una possibilità – dobbiamo prenderci la responsabilità di scegliere se accettare oppure no. E se accettiamo dobbiamo fare del nostro meglio. Se so che non posso impegnarmi seriamente preferisco dire di no in partenza. Questo non mi toglie delle possibilità (non sono convinta che i treni passino una sola volta nella vita). Ma al contrario mi dà la possibilità di lavorare seriamente quando sono in grado di farlo, e di non rischiare di fare una cattiva impressione solo perché mi sento obbligata a dire di sì a qualcosa per cui non ho tempo o che non mi convince totalmente.
3. Gratitudine
Sono stata educata a dire grazie, prego, scusa. A volte dal vivo faccio fatica, sono introversa, mi faccio un sacco di paturnie. Sui social è più facile per certi versi: basta un tag o una menzione. Essere un buon professionista, secondo me, passa anche dall’imparare a dire grazie alle persone che in qualche modo ci hanno fatto arrivare dove siamo. E tenendo conto che stiamo parlando di freelance, e che spesso il principale strumento di comunicazione di queste persone è l’online, credo sia buona cosa utilizzare i social anche per mostrare la nostra gratitudine agli altri professionisti. Mandare un messaggio privato va sempre bene. Ma dire grazie pubblicamente è una cortesia che può aiutare qualcuno a crescere in termini di visibilità e di autorevolezza. A noi non costa nulla, e non è che i nostri social devono diventare dei continui messaggi pubblicitari… Ma se qualcuno mi ha dato un consiglio prezioso, se una consulenza è risultata essere particolarmente efficace, è bello ringraziare pubblicamente e contemporaneamente dare una mano a un altro business. Ringraziare solo i profili con più follower e ignorare quelli che ne hanno meno dimostra che sei bravo a sfruttare il network altrui. Ma la dicono lunga anche sul tipo di persona che vuoi essere.
4. Coerenza
Sarebbe stupido pensare che la vita del freelance sia una lunga linea retta. Ci sono clienti che vanno e vengono, collaborazioni durature e incarichi spot, conoscenze sul web che si cementano e altre che si sgretolano. Quello che secondo me deve rimanere lineare è il nostro modo di essere. Non è sempre facile prendere posizione, ma per me il più delle volte è necessario. Mai in maniera aggressiva, ma in modo deciso sempre. Negli ultimi anni ho preso delle posizioni che sicuramente mi hanno creato qualche danno a livello professionale, ma che mi hanno fatta dormire serenamente tutte le notti. Quindi non me ne pento. Mi piacciono le persone limpide, e cerco di esserlo sempre. Faccio una fatica terribile a lavorare in situazioni ambigue e le scelte più dolorose ma più importanti nel mio passato professionale le ho fatte proprio per essere coerente con me stessa. Dire di no nella vita è difficile, forse nel business lo è ancora di più, perché hai la sensazione che si chiudano porte che poi non si riapriranno più. In realtà la mia esperienza finora mi dice che un no detto per coerenza alla fine porta più benefici che svantaggi (anche se quest’ultimi all’inizio sembrano prevalere).
5. Fatti, non… (dai, lo sai come finisce la frase)
Quando facevo i colloqui a chi voleva lavorare nella mia startup non guardavo praticamente mai il cv come prima cosa. Lavoravo in un settore, quello delle Smart Cities, che all’epoca era tutto da costruire. Perciò non mi servivano persone capaci di fare qualcosa di specifico, perché ci stavamo muovendo in un campo inesplorato (almeno in Italia). Servivano soprattutto persone che morivano dalla voglia di contribuire. Secondo Wikipedia l’innovazione riguarda un processo o un prodotto che garantisce risultati o benefici maggiori apportando quindi un progresso sociale. La vera innovazione alla portata di ogni singolo essere umano è, secondo me, capire che cosa lo appassiona e spendersi completamente per quello: se lo fa contribuisce a un vero progresso sociale, perché anche gli altri vorranno fare come lui. E cioè scoprire quello che li appassiona e dedicarcisi con tutti se stessi. Ben vengano i titoli e le certificazioni, ma solo se sono preceduti e sostenuti da azioni concrete. Come professionisti dovremmo preoccuparci più di quello che facciamo che del titolo che scriviamo sui biglietti da visita, no?
6. Concorrenza (leale)
La concorrenza è naturale quando si fa business. Ma poi uno deve decidere come farla. Io voglio essere migliore dei miei competitor, non mi vergogno a dirlo. Perché essere migliore significa poter portare il mio messaggio e il mio valore a più persone possibile. Si fa un gran parlare di copiare, e devo dirlo: io sono una gran sostenitrice del copiare. Perché non c’è niente di male a farlo, se uno lo fa nel modo giusto (e su questo argomento ho tenuto un intero workshop). L’essere umano impara copiando. Ma copiare significa reinventare, creare connessioni inedite. Non creare una fedele replica del lavoro di qualcun altro prendendosene il merito. Trovo che imparare da chi è più bravo di noi sia quasi un obbligo morale, basta non aver paura di dichiarare da dove si prende un esercizio o da dove si trae ispirazione. Le “fonti” possono essere comuni a tanti professionisti, ma quello che ci rende unici è la nostra capacità di rielaborarle creando contenuti e soluzioni nuove. È come si sviluppa il nostro percorso che ci rendi unici, non il punto di partenza.
7. Ironia
Quello che faccio mi diverte – anzi, mi diverte un casino. Non potrei vivere in un mondo senza ironia, e non posso lavorare con persone senza senso dell’umorismo. Voglio che chi lavora con me si diverta, non solo perché faccio battute, ma perché mi piace l’idea di costruire insieme un percorso che sicuramente sarà in salita, ma che alla fine ci regalerà un panorama mozzafiato. Per questo ai miei coachee dico sempre che non è facile fare business. Ma che se il tuo business è quello che ti piace veramente, allora ti divertirai un casino.